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LA GESTIONE PSICOLOGICA DELL’INFORTUNIO
Note: Psicologa clinica e dello sport, fondatrice del Centro di Psicologia dello sport del Friuli V.G. nel 1998.
L’infortunio e, più in generale, il dolore, sono degli eventi che appartengono al mondo dello sport. Tuttavia, mentre il dolore può assumere per un atleta diversi significati (anche positivi, se si pensa al performance routine pain, cioè al dolore fisico che preannuncia l’entrata nello stato di forma, o al dolore-allarme, che suggerisce l’interruzione dell’attività in corso segnalando la possibilità di un’imminente lesione), l’infortunio vero e proprio (inteso come incidente inatteso) rappresenta quasi inevitabilmente un evento che destabilizza l’equilibrio emotivo dello sportivo.
Non adattarsi mentalmente all’inatteso evento può comportare, a seconda dei fattori contestuali e della personalità dell’atleta, la comparsa di sensazioni di rabbia e impotenza, sbalzi di umore, sensi di colpa, domande insistenti circa il proprio ritorno alla pratica sportiva, pensieri irrazionali e depressivi, rientro problematico all’attività, abbandono precoce dello sport praticato e, nei casi più gravi, sindrome del dolore cronico e grief reaction (reazione simile a quella che potrebbe seguire il lutto di una persona cara), con la conseguente compromissione del normale funzionamento dell’individuo in famiglia, negli studi o sul lavoro, e nelle relazioni interpersonali.
Ma esaminiamo ora più nel dettaglio le varie fasi dell'infortunio e la sua ricaduta a livello psicofisico:
Perchè capita l'infortunio?
Chiediamoci di chi o di che cosa è stata la responsabilità dell'accaduto. Frequenti spiegazioni si ritrovano nella carenza di concentrazione/attenzione, nel non adeguato inserimento nel gioco, nella espressione troppo accentuata e mal canalizzata dell'aggressività dell'atleta, nella gestione dell'ansia e dei fattori stressanti presenti ed infine nel mancato calcolo del rischio dell'azione.
Le reazioni immediate da parte dell'atleta.
L'agonista può negare parte dell'accaduto o non credere alla sua gravità, si allontana per un fatto di nervosismo da chi gli racconta come sono andati i fatti o da chi lo vuole semplicemente consolare, può arrivare al rifiuto delle cure mediche dicendo che lui non ne ha bisogno e gestire male il rapporto con il fisioterapista.
La personalità dell'atleta e la relazione con precedenti infortuni influiranno sulla gravità dell'infortunio: un atleta che ha una capacità psicologica innata di recupero rispetto agli eventi stressanti e che ha alle spalle diversi ricordi legati a momenti di difficoltà che ha saputo superare reagirà in maniera molto più positiva rispetto all'atleta giovane, smanioso, inesperto e magari con un ruolo di punta.
L'importanza del momento agonistico è estremamente rilevante: essere in campo al più presto possibile per l'atleta può divenire un'ossessione e scatenare una serie di dubbi sulla sua felice e rapida ripresa.
La riabilitazione.
La presa di coscienza di quello che è successo e di quello che sta succedendo al suo corpo porterà l'atleta ad acquisire maggiore consapevolezza sui suoi limiti e sui rischi che chi fa sport in modi diversi deve affrontare; se non subentra il fatto di accettare l'evento l'atleta psicologicamente resterà ancorato a questa parte del passato, senza riuscire a futurizzare. L'elaborazione di ogni fase (cause, reazioni, tempi di riabilitazione) deve essere presa sul serio e curata in ogni suo dettaglio, altrimenti l'atleta rischierà di soffermarsi spesso, durante la sua carriera, su quello che non è riuscito ad affrontare a tempo debito.
I tempi di recupero (psicologico e fisico) sono fondamentali soprattutto in ambito professionistico: spesso la Società richiama a gran voce l'atleta che ancora non si è ripreso del tutto in occasione di grandi eventi sportivi (tornei, finali, campionati) e l'atleta, aiutato dallo staff medico che lo circonda, talvolta scende in campo con il trauma alla gamba guarito ma con la paura di farsi male e battere il ginocchio nello stesso punto, compromettendo la situazione ancora di più.
Quando parliamo di infortunio possiamo pensare solo ad uno stop dall'attività agonistica di qualche settimana, a volte invece si tratta di dover subire parecchi esami ed accertamenti, seguire delle terapie farmacologiche o fisioterapiche specifiche anche dolorose e faticose, dover aver bisogno di protesi o tutori temporanei e persino affrontare una operazione chirurgica.
L'importanza di avere vicino delle persone care che formano la rete sociale dell'atleta (parenti, amici, fans, colleghi) è importante per la velocità di recupero dall'evento; anche vedere nella propria stanza d'ospedale i componenti della squadra o del team offre un sostegno che si rivela preziosissimo.
Purtroppo la pressione da parte degli sponsor rallenta il recupero psicologico dall'infortunio poichè rincara la dose di ansia e di timore che l'atleta si porta con sè e qualche volta il rischio di utilizzare delle sostanze dopanti per accelerare il momento del rientro in campo diventa una realtà.
Qualche consiglio da parte dello psicologo dello sport.
- Elaborare l'incidente (in terapia, in colloquio, con tecniche di rilassamento, rivivendo l'evento)
- Riflettere sull'immagine di prima (vincente e sana) e connetterla senza paura ma con rinnovato desiderio di esprimere il proprio valore all'immagine del dopo ( temporaneamente o permanentemente compromessa)
- Superare la paura di conseguenze fisiche, di cambiamenti di vita o nello sport
- Non avere paura di tornare in campo e rifarsi male
- Non sentirsi "diverso" da prima, abbiamo solo vissuto un'esperienza
- Superare la paura di aver perso il proprio ruolo nella squadra o nel team
La Psicologia della riabilitazione si fonda su:
- l'utilizzo di tecniche di Mental Training
- un lavoro sull'immagine corporea e sull'immagine di sè precedente come indistruttibile e inviolabile
- lo sfogo della rabbia e dell'aggressività per quanto è successo
- sul riconoscimento delle emozioni attraverso il profilo emozionale e attraverso i pensieri negativi che sono sopraggiunti prima, durante e dopo l'incidente
- sulla collaborazione con lo staff medico e psicologico
- sull'aumento dell'autoefficacia, cioè sulla capacità di far fronte agli eventi con rinnovata fiducia in sè.
LA PAURA DELL’INFORTUNIO
Chiunque osservi una competizione, specie quelle ad alto livello, rimane colpito dall’apparente semplicità e naturalezza con la quale gli atleti eseguono movimenti dove è richiesta una grandissima forza senza sforzo, il tutto su varie superfici.
Anche gli atleti di alto livello dichiarano di trovarsi di fronte all’emozione della paura nel momento in cui rientrano dopo un’infortunio. Esistono quindi blocchi psicologici ed eventuali relazioni con esperienze pregresse di infortuni.
Ciò che accomuna le attività sportive è il continuo tentativo di portare all’eccellenza e ai limiti delle possibilità umane una data abilità.
L’agonismo, l’aspirazione alla vittoria, la caccia dei record, spingono alla ricerca di prestazioni massime e, di conseguenza, anche le intensità emozionali risultano amplificate al massimo, sia in senso positivo che negativo.
In alcuni casi la paura può rappresentare un vero problema e spesso si verificano situazioni in cui i coach, non preparati a gestire simili circostanze non riesono ad aiutare concretamente i propri atleti. La gestione errata di tali situazioni può causare l’abbandono all’’attività.
La paura può bloccare i processi di acquisizione di nuovi elementi o impedire l’esecuzione corretta di quelli che già fanno parte del bagaglio tecnico dell’atleta.
Stati emotivi di paura e ansia possono, infatti, influenzare molto negativamente l’allenamento e la prestazione.
In conclusione è auspicabile effettuare studi sugli aspetti emotivi e cognitivi che caratterizzano la paura e lo sviluppo di strategie operative atte a controllare e gestire nel miglior modo quest’emozione disabilitante così da facilitare l’operato di tecnici e atleti.
LA GESTIONE PSICOLOGICA DELL’INFORTUNIO
L’infortunio e, più in generale, il dolore, appartengono alla logica dello sport. Tuttavia, mentre il dolore può assumere per un atleta diversi significati (anche positivi, se si pensa al performance routine pain, cioè al dolore fisico che preannuncia l’entrata nello stato di forma, o al dolore-allarme, che suggerisce l’interruzione dell’attività in corso segnalando la possibilità di un’imminente lesione), l’infortunio vero e proprio (inteso come incidente inatteso) rappresenta inevitabilmente un evento destabilizzante, in misura maggiore o minore, l’equilibrio emotivo e, a volte, psicologico, dello sportivo.
Un cattivo adattamento all’infortunio può, infatti, comportare, a seconda dei fattori contestuali e della personalità dell’atleta in questione, la comparsa di sensazioni di rabbia e impotenza, sbalzi di umore, sensi di colpa, domande ossessive circa il proprio ritorno alla “normalità”, pensieri irrazionali e depressivi [Patitpas e Danish, 1995], ritorno “insicuro” all’attività, abbandono precoce dello sport praticato e, nei casi più gravi, sindrome del dolore cronico e grief reaction (reazione simile a quella che potrebbe seguire il lutto di una persona cara), con la conseguente compromissione del normale funzionamento dell’individuo in famiglia, negli studi o sul lavoro, e nelle relazioni interpersonali
Lo sport, purtroppo, è anche questo. Spetta, dunque, alla psicologia applicata in ambito sportivo fornire strumenti utili sia per l’atleta sia per l’allenatore sensibile alla tematica o che debba confrontarsi con ragazzi infortunati e/o a rischio frequente di inattività; il tutto nella duplice ottica riabilitativa (la gestione psicologica dell’atleta nella fase di riposo forzato da infortunio) e, soprattutto, preventiva (conoscenza da parte dell’allenatore dei segnali di allarme e attuazione di modalità relazionali e comportamentali protettive).
L’allenatore può, infatti, a tale proposito, rivestire un ruolo fondamentale e insostituibile, nella consapevolezza che, accanto ai fattori fisici / tecnici predisponenti l’infortunio (come la conformazione fisica / muscolare del soggetto e l’overtraining o allenamento eccessivo), esistono quelli psicologici e personologici dell’atleta; iniziare, per esempio, a riflettere su quesiti del tipo << che persona sto allenando >>, << com’è il suo senso di controllo sulle situazioni >>, << come reagisce solitamente alle sfide >>, << quanta energia investe nello sport >> significa iniziare a conoscere l’hardness o durezza mentale del proprio atleta [Gentry e Kobasa, 1979], fattore individuale che, se buono, rappresenterebbe una variabile protettiva rispetto l’infortunio (diminuisce, cioè, la probabilità di cadervi) ma potrebbe diventare elemento di ostacolo all’adattamento post-traumatico nel caso di incidente avvenuto. Da non dimenticare, inoltre, la ri-progettazione degli obiettivi agonistici e competitivi dell’atleta che ritorna all’attività dopo la riabilitazione (goal setting realistico), compito essenziale per un allenatore al fine di evitare nello sportivo delusioni immediate ed ansie ingestibili per la richiesta di confronti competitivi eccessivamente difficili ed impegnativi rispetto il suo stato attuale fisico e psicologico.
E l’atleta, invece? Di cosa ha bisogno?
E’ importante convincersi che, per l’atleta infortunato, lo stress maggiore generalmente non è l’incidente in se stesso (che rappresenta, comunque, un modo per riposarsi dagli allenamenti), bensì è proprio il “non sapere cosa volere”! In altre parole, si pensa di poter andare avanti senza l’identità di atleta (temporaneamente perduta a causa dell’inattività) ma c’è chi non vi riesce.
Per tale motivo il soggetto infortunato va, innanzitutto, aiutato a capire cosa gli serve, a ridefinire le priorità che si era prefissato prima dell’incidente, ad allargare i suoi interessi anche ad ambiti non sportivi consigliandogli, al tempo stesso, di mantenere i contatti con il suo sport, l’allenatore e la squadra. In una parola, l’atleta va aiutato (sempre e comunque ma, a maggior ragione, se inattivo) ad essere una persona equilibrata, a riprendersi la propria identità di sportivo ma con un atteggiamento mentale moderato, capace di accettare emozioni negative e momenti di stasi o peggioramento, un atteggiamento mentale diverso, quindi, rispetto quella durezza psicologica necessaria negli allenamenti e nei momenti di forma fisica. Meno rigidità, dunque, per poter affrontare correttamente le proprie debolezze, che possono anche comprendere sentimenti di colpa per aver abbandonato la squadra, valutazioni esagerate circa i miglioramenti nella guarigione, progressiva crescita della dipendenza da medici o fisioterapisti, ripetuti tentativi affrettati di ritorno alle competizioni, rapidi e continui cambiamenti di umori, e tendenza al ritiro sociale (quest’ultimo non da sottovalutare se si pensa alle ripercussioni che può avere su autoimmagine e autostima della persona).
Non solo. E’ importante per l’atleta conoscere il proprio problema fisico e documentarsi (per esempio leggendo libri e guardando illustrazioni) sul tipo di infortunio subito, in modo da poter avere un’immagine mentale sufficientemente chiara della propria lesione e sentirsi il più possibile soggetto attivo nel processo di riabilitazione.
In una espressione, l’atleta cerchi di riprendersi un po’ di controllo, impegnandosi con senso critico e atteggiamento interattivo nella terapia fisica riabilitativa ma anche allenandosi, questa volta mentalmente, con il Mental Training. Con l’imagery (ripetizione mentale di un gesto motorio o di uno scenario come se lo si stesse eseguendo o vivendo in quel preciso istante) e le strategie cognitive di controllo del dolore, per esempio.
Se è vero, infatti, che l’effetto Carpenter (incremento dell’attività muscolare in certi segmenti corporei dovuto non al movimento effettivo ma alla pura ripetizione mentale del movimento stesso di quei segmenti mentre il soggetto si trova in condizione di riposo e, dunque, da fermo) dato dall’imagery consentirebbe di rimanere tecnicamente e muscolarmente allenati anche in stato fisico di effettivo riposo [Schmidt 1988; Jowdy e Harris, 1990], recenti studi relativi ad allenamenti sistematici e regolari alla healing imagery (immaginare metafore di guarigione, per es. una cascata di acqua fredda che spegne il “fuoco” nel proprio ginocchio, come pure un ponte solido e flessibile piuttosto che un rotula di vetro) e alla soothing imagery (immaginare situazione bucoliche e rilassanti) dimostrerebbero l’efficacia dell’immaginazione mentale nel processo di recupero organico e, soprattutto, nella riduzione dell’attività del simpatico a favore del parasimpatico, con conseguente allentamento della contrattura antalgica, produzione di emozioni positive e contrasto di immagini negative. Utile, inoltre, per l’atleta, la conoscenza delle principali strategie di pensiero funzionali al controllo del dolore, quali il mantenimento di un focus attentivo esterno (“distrarsi” per es. ascoltando musica o guardando uno spettacolo interessante), l’attività cognitiva ritmica (per es. contare a ritroso da 100 a 1 o canticchiare ritornelli), il riconoscimento del dolore (decidere di “guardare” il dolore immaginando, per es., la circolazione del sangue che lo porta via), il coping drammatizzato (per es. immaginarsi in una situazione epica in cui sopportare il dolore porta al trionfo o alla conquista).
Tante, dunque, ma ben definite, le misure possibili da adottarsi. Una cosa è certa: all’atleta piace essere protagonista. Spetta a noi ricordargli che può esserlo anche da infortunato.
Dopo tutto ciò che importa è stare bene con se stessi.
Destinatari
- allenatori sensibili alla problematica per motivi preventivi o perché chiamati a confrontarsi con atleti infortunati o predisposti all’infortunio
- atleti in stato di riposo da infortunio o atleti in attività ma soggetti ad incidenti muscolari/ossei frequenti
Obiettivi
Gli obiettivi perseguibili si distinguono in
- obiettivi formativi (rivolti agli allenatori): finalizzati ad approfondire nel tecnico le conoscenze relative le diverse modalità della mente di affrontare situazioni d’emergenza, i fattori predisponesti l’infortunio e i segnali d’allarme, le paure dell’atleta, l’atleta in burnout e l’atleta infortunato, i fondamenti della relazione d’aiuto, le strategie di coping (fronteggiamento dello stress) in ambito sportivo.
- obiettivi mentali (rivolti agli atleti): finalizzati ad agevolare nell’atleta i processi di ridefinizione delle priorità, accettazione del trauma, delle emozioni negative e degli eventuali peggioramenti nella guarigione, gestione cognitiva del dolore e della paura, comunicazione efficace con il proprio allenatore.
Metodologia e modalità degli incontri
La metodologia di approccio adottata durante gli incontri si differenzia in funzione della categoria degli interessati (atleti piuttosto che allenatori) e dell’ottica all’interno della quale viene strutturato l’intervento (preventiva piuttosto che riabilitativa); si prevede, comunque, una fase puramente formativa (lezioni e visione di filmati) alla quale eventualmente affiancare un discorso di tipo clinico (sostegno o tecniche di Mental Training per l’atleta).
Anche la modalità adottata si differenzia in funzione degli interessati. Precisamente
- per gli atleti: di tipo individuale (colloqui con il singolo). Numero di incontri e frequenza sono da definirsi con l’interessato in funzione degli obiettivi che si vogliono raggiungere o dei tempi di recupero che si devono rispettare
- per gli allenatori: di tipo “piccolo gruppo” (non oltre le 5-6 unità) o, su richiesta, individuale. Il numero di incontri è di 2 giornate da 3 ore ciascuna (o 1 giornata da 6 ore suddivisibili 3 al mattino e 3 al pomeriggio).
Ultimi commenti
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